Piemonte: Vino e vigne del Piemonte

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La coltivazione della vite in area piemontese e di conseguenza anche la sua lenta diffusione lungo i dossi soleggiati del sistema collinare torinese è una pratica documentata sin da tempi remoti che affonda le proprie radici nelle testimonianze letterarie offerte degli autori latini.

Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis Historia, celebra i fasti vitivinicoli di quella fascia del Piemonte settentrionale increspata dai dolci declivi novaresi che ancora oggi offre al palato degli appassionati la struttura corposa ed austera propria di vini ricavati principalmente dalle uve nebbiolo coltivate in zona.

Del nebbiolo, una delle cultivar di più antica tradizione in area subalpina, è attestata la presenza a partire dal Duecento sui pendii soleggiati della collina morenica di Rivoli tanto che un documento risalente al 1266 quantifica in 306 sestari (il sestario è un’unità di misura della capacità che corrisponde a poco più di 40 litri), sul totale complessivo di 529, la raccolta delle uve nelle vigne di proprietà del castellano locale (conte Umberto de Balma). Le radici etimologiche del nome di questo vitigno sono state esplorate dagli storici senza che si sia mai approdati ad una sentenza condivisa: taluni ne ricercano l’origine nell’abbondanza di “pruina”, sostanza che si stratifica sulla buccia dell’acino alterandone il colore caratteristico, che spazia dal violaceo al rossiccio, e dotandola di quelle venature tendenti al grigio che conferiscono al grappolo il tipico aspetto “annebbiato”; altri riconducono le radici del nome nebbiolo alla posticipazione del periodo della raccolta delle sue uve, rispetto ad altre cultivar, alla comparsa delle prime nebbie che avvisano dell’incipiente stagione autunnale.Cattedrali-Sotterranee-Canelli-2 La fermentazione delle uve nebbiolo, chiamate localmente spanna nel Vercellese e nel Novarese, dava origine ad un prodotto già apprezzato ai tempi dei Romani come attestato sia dalla citata testimonianza di Plinio il Vecchio che ne individua il principale centro di produzione nella località di Agaimium (Ghemme) sulle colline novaresi sia dal trattatista Columella che nel I sec. d.C., riferendosi al nebbiolo nel “De re rustica”, ne descrive “i grappoli di uva nera che danno vino da località fredde”. Giovanni Battista Croce, nel suo trattato “Dell’eccellenza e diversità dei vini che sulla Montagna di Torino si fanno, e del loro modo di farli” edito nel 1606 e ristampato nel 1609 e nel 1614, cataloga il “nebiol” tra le varietà d’uva diffuse sui pendii esposti al sole e rivolti all’indiritto, cioè a sud, della collina torinese evidenziando come già dalla derivazione del nome nebbiolo da “nobil” (vale a dire “nobile”) trasparisse la tempra del vino ricavato dalla loro fermentazione, che si presentava corposo e dolce (era prassi, contrariamente alle consuetudini attuali, vinificarlo in versione dolce quale testimonianza della mutevolezza dei gusti e delle tecniche) e adatto ad un consumo aristocratico. Il Croce, gioielliere di corte ai tempi di Carlo Emanuele I trasferitosi da Milano a Torino nella seconda metà del Cinquecento e morto nella capitale sabauda nel 1616, aveva associato alla propria fama professionale di orafo la notorietà acquisita quale esperto vinificatore curando i propri tenimenti coltivati a vite (estesi su una superficie pari a 26 giornate piemontesi) che erano dislocati lungo i versanti meglio esposti al sole di val Salice (da “valle dei Salici”, disseminata anticamente di locande frequentate dalle coppie d’innamorati e raggiungibili soltanto a piedi o a dorso d’asino), di val San Martino e della collina di Candia (attuale Santa Margherita) dove sorgeva la sua dimora. Egli decise così di affidare alla carta stampata, ad uso dei suoi ammiratori, il bagaglio di conoscenze utili alla cura della vite ed alla produzione del vino accumulate in anni di pratica sul campo. Nel trattato descrive ventotto diverse tecniche di vinificazione dalle quali si otteneva: vino bianco (3 ricette), grigio, sottratta, chiaretto (8 ricette), passito (3 metodi), frizzante (7 ricette), schiappato (3 ricette). Il Croce indica anche il modo per produrre cinque vini dalle caratteristiche differenti adoperando le stesse uve: la “sostratta”, il “chiaretto”, il “chiaretto coperto”, il “vin de melloni” adatto per l’estate e la “posca” o vinello annacquato. Premesso che la catalogazione organolettica nel 1600 si fonda sul criterio classificatorio dato dalla combinazione di colore, gusto e carattere piccante (frizzante), dalle valutazioni del Croce sembra di poter arguire che le preferenze dell’epoca a Torino si orientassero sui vini rosati, dolci e frizzanti con la particolarità da registrare che si tendeva a produrre vini dolci non da uve aromatiche o a sapore moscato bensì da uve a sapore semplice (l’Erbaluce, oggi noto nella sua variante secca, era apprezzato nella Torino seicentesca come vino dolce). Il trattatista elenca poi le varietà di uva coltivate sulla collina torinese distinguendo le cultivar destinate al consumo in tavola o alla vendita sui mercati cittadini da quelle ideali per la produzione vinicola. Riportiamo un breve estratto della certosina catalogazione del Croce corredata di inciso esplicativo dell’etimologia: Cascarolo, uva bianca così chiamata per la dimensione degli acini che cascano a terra per forza propria una volta completata la maturazione, Erbalus (detto anche uva “rostia” o arrostita per l’aspetto ramato che assumono i suoi bianchi acini quando sono ormai maturi) che evoca nel nome il riflesso splendente della buccia che biancheggia accarezzata dai raggi solari (come “alba luce” scrive il Croce), Nebiol dalla sua nobiltà, Uccellino che fa derivare il curioso nome dal fascino irresistibile esercitato sugli uccellini che volentieri lo beccano, Nebiol milanese chiamato dai Lombardi “pignola”, Neretto che i Francesi conoscono come “Nereau”, Malvasia uva aromatica o a “sapore moscato” da cui si ricava il dolce Malvasia e Moscatello nostrale dal quale si traeva il gradevole Moscatello, Luglienga ed Aostenga che traggono il proprio appellativo dal completamento del processo di maturazione nei rispettivi mesi di luglio ed agosto, circostanza che rendeva queste uve inadatte a far vino ma ideali per il consumo a tavola, Avanat documentato sin dal Seicento nel territorio montano di Chiomonte, Castagnazza dalla quale si ricava “vin molle per la servitù”, Passula bianca che dà vino “dolce e piccante” ma già rarissimo quando il Croce scriveva e circoscritto alla zona di San Mauro Torinese, Mostoso dall’abbondanza del mosto, Cario che “meglio dirsi potria caro per la bontà sua” e che dava origine ad un vino dolce e afrodisiaco. Tra le tecniche descritte acquista rilievo, anche per le implicazioni sociali che suggerisce, il processo di fermentazione che il Croce consiglia di attivare per la produzione di vini “schiappati” che erano bevande particolarmente adatte alla servitù sia per la labilità del grado alcolico sia per i bassi costi collegati alle operazioni di cantina. E’ il cosiddetto “vinello” comunemente noto in Piemonte con il nome popolare di “piquette” o “posca” o anche “acquatico”, illustrato già dai ricettari medievali quale bevanda ideale per i servi ma capace di raggiungere un tale grado di piacevolezza al palato da affermarsi sul mercato cittadino anche come gradevole rinfrescante utile per combattere la calura estiva che attanaglia la città. Il procedimento seguito, in estrema sintesi, è questo: dopo la svinatura (separazione del mosto dalle vinacce) si aggiungeva alle vinacce rimaste nella botte di cantina, e rafforzate con qualche raspo, una certa quantità d’acqua (da un quarto ad un sesto come quantità iniziale e poi un boccale d’acqua da versare quotidianamente) mescolata a del mosto filtrato secondo dosaggi prestabiliti (nella misura proporzionale di una brenta di filtrato ogni dieci brente d’acqua) in maniera tale da accrescere la quantità del prodotto finale riducendo sensibilmente le spese di produzione.Neive Sovente si ricoprivano le vinacce con uno strato di acini d’uva bianca (il cosiddetto “uvizzolo”) che serviva a dare sostanza al sapore altrimenti scialbo della bevanda. La coltivazione della vite sulla collina torinese e anche nelle aree di pianura, praticata da tempo immemorabile, venne potenziata con l’avvento dei Savoia Acaia a partire dal tardo Duecento e assunse una tale rilevanza economica per il guadagno che traevano i contadini dalla vendita delle uve e del vino sui mercati torinesi da suscitare l’interessamento delle autorità per la tutela di questa attività sia dai rischi di danneggiamento dei vigneti (sanzionati con severità dagli statuti medievali che contemplavano un repertorio di sanzioni talmente esteso da spaziare dal taglio della mano all’impiccagione) sia dalla minaccia di adulterazione fraudolenta del vino a detrimento dei diritti del consumatore, come attestato dalla lettura delle regole consuetudinarie torinesi raccolte nel Codice della Catena approvato dal Conte Verde nel 1360 ed esposto alla pubblica consultazione nel vestibolo del municipio.

cantine coppoGli statuti vietavano ai cittadini torinesi che non fossero proprietari di appezzamenti collinari di pernottare nelle aree tenute a vigneto ultra Padum da metà agosto a metà settembre e di attraversare il Po in prossimità del periodo della vendemmia (precisamente tra san Giovanni e san Martino) se non in corrispondenza dei ponti a ciò deputati. I mercati di Torino si rifornivano di prodotti provenienti dalla cerchia delle campagne circostanti e le disposizioni statutarie si preoccupavano di stabilire norme che tutelassero il consumatore e assicurassero il regolare approvvigionamento delle principali fonti di sostentamento della popolazione quali pane, carne e vino. Le cronache comunali riportano numerosi casi di ammende inflitte dalle autorità preposte ai beccai (macellai) o loro inservienti sorpresi a “gonfiare” la carne con il soffio del vento o anche della bocca e ad infarcirla con sostanza estranee per aumentarne la massa oppure accusati di aver venduto carne di animali morti in circostanze sospette o per causa di malattia conclamata (condotta fraudolenta alla quale si applicava l’ammenda di venti soldi per bestia). Al primo decennio del Quattrocento risale il caso di un commerciante torinese sanzionato con una multa per aver posto fraudolentemente in vendita del vino mescolato al miele allo scopo di addolcirlo contravvenendo alle regole che imponevano che il vino dolce fosse ottenuto con procedimenti naturali.

L’aggiunta di miele era una pratica già diffusa presso i Greci che solevano anche aromatizzare il vino mescolandolo alla resina (o lacrima del pino d’Aleppo che conferisce alla bevanda un tipico sentore di eucalipto e menta) ed è invece una curiosa caratteristica del Piemonte occidentale, probabilmente ereditata da consuetudini celtiche, quella di produrre una bevanda alcolica sostitutiva del vino facendo fermentare le mele di scarto (o anche i frutti del sambuco) insieme con le vinacce e dando luogo al noto vin d’pom (vino di mele, una sorta di sidro piemontese). Un ricettario stampato a Torino nel 1535 descrive invece il procedimento per produrre “vin mielato”, ovverosia vino bianco dolce, tramite l’aggiunta di mele ben “pistate” e mescolate ad una certa dose di miele al “vino novo” che fermenta nella botte.

 

CattedraliCanelli
 
 
 
 
 
 
 
Vitigni a bacca nera
 
Vitigni a bacca bianca
 
Ringraziamo l'amico Piero D'Aquila di Torino che ci ha proposto questo articolo.

 

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