Un milione di anni fa compare l’uomo.
Le prime tracce che testimoniano l’uso del miele da parte dell’uomo, il quale probabilmente se ne cibava fin dalle origini, sono databili a circa 10 mila anni fa, come questa pittura rupestre scoperta nei pressi di Valencia, in Spagna: sembra mostrare un uomo che si arrampica sulla cima di un albero, o di una rupe. E’circondato da api in volo, dotato di una borsa o una cesta per riporre i favi sottratti alle api, con una nuvoletta di fumo per ammansirle. Questa tecnologia primordiale è la stessa usata ancor oggi dai “cacciatori di miele” in India, che si arrampicano con scale di corda su rupi alte anche 100 metri.
La più antica testimonianza dell’allevamento vero e proprio delle api risale a una pittura egiziana del 2400 avanti Cristo (riportata qui sotto), in cui a destra si nota l’operazione di prelievo dei favi dagli alveari con l’uso del fumo (si tratta di alveari orizzontali, nella tradizione mediterranea). A sinistra, l’operazione di sigillare delle giare. L’immagine appartiene a una serie rinvenuta nel Tempio del Sole, vicino al Cairo. Il miele nell’Antico Egitto era inizialmente un cibo di lusso, una prerogativa reale e divina; una maggiore generalizzazione del suo uso comincia nel secondo millennio avanti Cristo, come mostra il ritrovamento di vasi per il miele o favi in tombe private, e la menzione del miele come razione di cibo in spedizioni commerciali, come bottino di guerra, pagamento di tributi, offerte templari e doni votivi.
Il miele era conosciuto e apprezzato in tutti i popoli dell’area mediterranea e di quella egeo-anatolica: e in molti paesi di queste aree l’apicoltura (come attività organizzata, distinta da quella del “cacciatore di miele”) era praticata almeno dalla metà del secondo millennio avanti Cristo.
A questi trattati attingeranno (spesso pedissequamente) le successive opere in latino, a carattere letterario o pratico che, soprattutto nel I secolo dopo Cristo, parleranno delle api: Virgilio nelle Georgiche, Plinio nella Naturalis Historia, Columella nel De re rustica. In realtà per molti secoli a venire la conoscenza delle api rimarrà bloccata a questo primitivo e spesso mitologico livello.
Se rimane condivisa fino a tutto il Medio Evo l’origine “celeste” del nettare, già Seneca , nel I secolo dopo Cristo, ipotizzava che le api non si limitassero a raccoglierlo dai fiori, ma lo elaborassero: "Non si sa bene se (le api) ricavino dai fiori un succo che è addirittura miele, oppure trasformino in questa sostanza saporita le essenze raccolte, mescolandole insieme e servendosi di una qualità del loro alito”. Bisognerà arrivare alla seconda metà del XVII secolo per avere una formulazione compiuta del processo di trasformazione del nettare in miele, da parte del microscopista danese Swammerdam. E solo nell’Ottocento la chimica organica ha fornito una spiegazione del fenomeno.
Nell’ antichità il miele, nell’alimentazione, era utilizzato sia come dolcificante, che come condimento, che come conservante.
Il trattato De arte coquinaria di Apicio (in realtà una raccolta di diversi autori che copre alcuni secoli) è la fonte più ricca di informazioni sull’uso del miele in cucina. Il gusto agrodolce era molto apprezzato, ma quella del trattato di Apicio era una cucina stravagante ed elitaria.
Come dolcificante, il miele compariva sulle tavole modeste così come su quelle dei ricchi, dove a volte veniva servito nel favo in cui era contenuto.
Il miele era usato nel confezionamento di piatti di pesce e di legumi, di confetture di frutta e sciroppi, di focacce. Come conservante, era utilizzato con frutti come mele, cotogne, e pere.
Insieme al latte, costituiva un alimento dato ai bambini delle fasce sociali più alte.
Dalla sua fermentazione veniva prodotto l’ idromele, che continuò ad essere popolare nel Medioevo. Un’altra bevanda ricercata era il vino mielato, per il quale si utilizzavano i vini più pregiati e stagionati, come Falerno e Massico.
Ma l’uso del miele si estendeva alla cosmesi (olii aromatici, profumi) e alla medicina, come antisettico, cicatrizzante, purgativo, fino all’artigianato (immersioni per dare brillantezza al colore porpora dei tessuti o alle pietre preziose).
Nell’antichità il miele veniva definito di prima o seconda scelta a seconda che provenisse dalla colatura del favo o dalla spremitura.
La distinzione delle varietà di miele era molto primitiva, spesso basata su un’ osservazione ai nostri occhi povera o ingenua. Aristotele distingueva tra il miele primaverile “più dolce e più bianco e nel complesso più dolce di quello autunnale”. Sosteneva inoltre: “il miele rosso è meno buono…infatti si corrompe come il vino da un recipiente. Perciò occorre farlo seccare”. Il miele di timo era quello che godeva di maggiore popolarità: “Il miele della Sicilia” scriveva Varrone “ha la palma su tutti proprio perché là abbonda il buon timo”. E Plinio: “Perché (il miele di timo) sia buono, deve essere profumato, di un sapore dolce-amaro, vischioso e trasparente”. Anche il miele di erica calluna viene identificato come tale (“è raccolto dopo le piogge autunnali, quando solo l’erica è in fiore nei boschi: per questo ha l’aspetto granuloso”).
Il prezzo del miele era paragonabile a quello degli olii e vini migliori, come si rileva dall’ “Editto dei prezzi” di Diocleziano del 301 dopo Cristo.
Se nell’ambito del Mediterraneo era diffusa un’apicoltura basata sull’uso di arnie orizzontali (di materie vegetali o di coccio), nel Nord Europa e in Russia si sviluppò un’ ”apicoltura forestale” in diretta continuità con l’attività del “cacciatore di miele”: gli sciami, alloggiati in alberi d’alto fusto, venivano identificati e, praticando delle aperture per poter estrarre più comodamente il miele, venivano periodicamente ripuliti del miele, con l’aiuto di scale di corda. Ancor oggi questa tecnica primordiale è praticata in regioni della Russia, come il Bashkortostan.
Il passo successivo fu quello di segare gli alberi per recuperare gli sciami o di utilizzare tronchi cavi per sfruttare le colonie d’api, con la possibilità di radunarle in postazioni apposite. Arnie in paglia di segale o altro materiale vegetale furono un possibile sviluppo dell’arnia a tronco, col vantaggio di una maggiore trasportabilità. La colonizzazione romana non comportò l’introduzione dell’arnia orizzontale di tipo mediterraneo, che conservò una più che millenaria tradizione “verticale”.
La tecnologia della produzione rimarrà sempre uguale a se stessa fino a metà dell’Ottocento, fino cioè alla scoperta dello “spazio-ape”, lo spazio fisso di 9 mm che le api lasciano per distanziare le loro costruzioni (e permette il passaggio di due api simultaneamente), che portò all’invenzione dell’arnia moderna a favi mobili, dove era possibile non solo studiare la vita delle api come dalle pagine di un libro aperto (mentre nell’arnia rustica favi e contenitore erano saldati in un tutto unico), ma anche ottimizzare la raccolta del miele senza ricorrere all’uccisione delle api, e intervenire sullo sviluppo delle famiglie d’api. Il complemento del telaio mobile fu lo smielatore, inventato nel 1856 dal maggiore Von Hruschka, dove si potevano inserire i telaini per estrarne il miele tramite centrifugazione.
Quando il miele era il fratello povero dello zucchero
Ma il miele, perso il suo primato come sostanza dolce, restava (e lo resterà fino ai giorni nostri) un alimento secondario rispetto allo zucchero.
L’andamento del rapporto tra i prezzi di miele e zucchero in Inghilterra, vede quello zucchero, nel 1400, sopravanzare di venti volte quello del miele, un rapporto mantenuto per un cinquantennio, che solo nel 1500 si ridusse a essere quattro volte più alto. In Francia, nel 1400 il prezzo del miele era il 9% del prezzo dello zucchero, e nel 1500 arrivò al 14%. Questo indica probabilmente una diversità di accesso ai due prodotti in termini di classi sociali, e fa pensare che la marginalità del miele sulle tavole dei ricchi sia in parte dovuta alla sua troppo facile reperibilità, alla sua ordinarietà. Uno statuto senese del XIV secolo vieta addirittura di spolverare in modo truffaldino con zucchero dolci preparati in realtà col miele.
Il miele mantiene comunque un molteplice ruolo: come correttore di sapidità (non solo nelle mense dei ricchi, ma anche in quelle più umili, se un trattato rinascimentale italiano parla di “villani” che consumano porri “co’l melle”), per ingentilire sapori rustici come quelli dei legumi, come condimento e legante (con carni rosse o bianche), come conservante della frutta, capace nello stesso tempo di esaltarne la naturale dolcezza, come ingrediente di confetture (composte vegetali speziate, cotte, oltre che nel miele, nel mosto o nello zucchero), come accompagnamento – involucro della frutta secca, e persino come conservante delle olive, che, recita un trattato del tempo, nel miele “si conservano intatte come se fossero raccolte di recente e se ne ricaverà l’olio verde quando si vorrà”.