Sicilia, Pantelleria parte2

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Le piante di Cappero, chiamata in botanica Capperis spinosa, si presentano come piccoli arbusti ramificati a portamento prostrato-ricadente. I capperi comunemente trovati sulle nostre tavole sono i boccioli della pianta, non i frutti, e si possono conservare sott'olio o sott'aceto ma il metodo più comune e comodo resta la conservazione sotto sale.

Qui sotto un fazzoletto di poesia adibito a piantagione di capperi.

La coltivazione delle piante di cappero avviene spontaneamente tra le spaccature delle rocce e dei muri a secco di cui l’isola è piena, ma possono essere anche coltivati in terrazzamenti con una agricoltura più forzata ma proficua. La raccolta dei boccioli avviene in un periodo che si estende da giugno a settembre ed al suo termine comincia la lavorazione del prodotto. Dopo la raccolta vengono lavati e fatti asciugare su un canovaccio. Per la conservazione si provvede a confezionarli in vasetti di vetro alternando uno strato di sale ad uno di capperi fino al raggiungimento della sommità del vasetto. Il tempo di conservazione arriva fino ad un anno. Il sale grosso infatti si è dimostrato perfetto per permetterne la conservazione senza dover aggiungere altro. L’unica accortezza che bisogna avere è di sciacquarli per bene prima di utilizzarli in modo da eliminare il sale in eccesso.

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I capperi vengono utilizzati per condire le pietanze conferendo quel gusto salato ma tipico della cultura mediterranea annoverandosi tra i prodotti IGP (Indicazione Geografica Protetta). Oltre alle ben note proprietà organolettiche i capperi hanno anche notevoli proprietà benefiche.

Recenti ricerche hanno messo in luce quanto il consumo di questo prodotto sia utile contro le allergie proteggendo l’organismo da allergeni costituiti da pollini, polvere e alimenti.

Ricchi di quercitina, sostanza che favorisce la diuresi, contengono un gran quantitativo di vitamine, tra cui la A,B e C, e Sali minerali come ferro, fosforo, calcio e potassio.

 

 

La vite: lo Zibibbo ed il Passito.

Il vitigno più diffuso sull’isola è lo zibibbo nelle varietà conosciute anche con i nomi di Moscatellone, Salamanna, Moscato d’Alessandria o, localmente, Moscato di Pantelleria. Il nome deriva da una parola araba “Zabib” e significa “uva passa”,” uvetta”.  Infatti è una tipologia di uva che ben si presta ad essere essiccata. Sembra che furono i Fenici o gli arabi a portare nelle nostre terre questo vitigno che si sviluppò in particolare nelle regioni del sud Italia.

La coltivazione di questo vitigno avviene in terrazzamenti che si estendono lungo la costa Pantesca e che espongono le piante al sole isolano preservandole dall’azione del vento ed dalla salsedine trattenendo un minimo la scarsa umidità del terreno. Questo metodo di coltivazione viene definito“in conca”.

La potatura conferisce al vitigno uno sviluppo particolare mantenendolo più basso rispetto a quanto si è abituati a vedere e permettendo ai muri di protezione di poter espletare a pieno la propria azione.

All’aspetto lo Zibibbo si presenta come un vino bianco con colorazione giallo dorato che talvolta presenta riflessi dorati. Le tonalità del profumo spaziano tra varie specie di frutti conferendo al nettare un odore fruttato con sentori di albicocca e mandorla. Passando alla degustazione il vino si presenterà con un sapore caratteristico di moscato, confermando il retrogusto di mandorla che si intuiva all’olfatto.

 

Dallo stesso vitigno si ricava il famoso e pregiato Passito di Pantelleria. I procedimenti alla base della produzione sono principalmente due. Quello più diffuso prevede la produzione con una base di zibibbo di forte gradazione al quale viene aggiunta, in proporzioni che si aggirano intorno al 25%/30% del totale del mosto in lavorazione, di uva passa di zibibbo in modo che la stessa ceda al mosto gli zuccheri e gli aromi contenuti.

Il secondo metodo prevede la raccolta dei grappoli di zibibbo più maturi e l’essicazione degli stessi per un periodo tale da far raggiungere all’uva una colorazione dorata. La perdita di acqua causata dal processo seguito permette di ottenere degli acini in cui l’elevato grado zuccherino, in seguito alla spremitura, conferisce il tipico sapore dolce e liquoroso al Passito.

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Questo processo di vinificazione è antico e risale ai tempi dei cartaginesi, Infatti già intorno al 200 A.C. Magone, Generale Cartaginese ci riportava come avveniva la produzione di questo prezioso nettare:

 “Si raccoglievano i grappoli maturi, avendo cura di eliminare quelli ammuffiti o guasti, poi si esponevano al sole su una canna, curando di proteggerla dalla rugiada, coprendoli durante le ore della notte. Quando i grappoli erano diventati secchi si staccavano gli acini in una giara ricoprendoli di mosto. Dopo sei giorni si spremevano e si raccoglieva il liquido. Ultimata questa operazione, si pigiava la vinaccia aggiungendovi del fresco fatto con altra uva tenuta al sole per tre giorni. Infine sigillava il vino in vasi di creta, da aprirsi dopo una fermentazione di venti, trenta giorni…”.

Negli anni il procedimento è rimasto invariato ricalcando un solco tracciato dalla tradizione del posto.

 

Nel 1971 finalmente arriva il meritato riconoscimento della DOC ponendo il Passito tra le innumerevoli perle che la cultura enologica Italiana può vantare.

All’aspetto Il Passito risalta per il suo colore dorato talvolta ambrato con un profumo tipico di moscato, aromatico e fruttato. Il sapore è avvolgente caldo e dolce con retrogusto di miele uva passa e frutta matura.

 

Con questo breve articolo vi ho illustrato le specialità più note nella speranza di aver stuzzicato il vostro interesse verso questa estrema propaggine d’Italia.

La mia breve esperienza sull’isola pantesca mi ha regalato dei ricordi che custodirò gelosamente nella mia memoria e che spero possiate vivere direttamente in loco godendovi un posto unico nel suo genere  e fantastico allo stesso tempo.

Valerio, pantesco per 80 giorni

Cattura


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